16 febbraio 2008

ARRIVA L'ONDA ANOMALA? LA CRISI DEL CREDITO....


Alcuni esperti stanno in queste settimane affermando che la recente crisi del credito (la cosiddetta crisi dei mutui subprime) è appena all'inizio ed è destinata a durare a lungo.
la causa della crisi attuale sarebbe in realtà da ricondursi al livello di credito/debito ormai insopportabile del sistema economico globale. Qualcuno non esita a fare il paragone con il declino giapponese dal 1990 al 2003, seguito allo scoppio della bolla nipponica del credito, in cui l'indice Nikkei ha perso l'80% in un arco di 13 anni, passando dai 38916 punti del 29 dicembre 1989 ai 7607,88 del 24 aprile 2003.
Il punto cruciale è che secondo questa corrente di opinioni, veniamo da un periodo che qualcuno giudica di troppa liquidità, troppa leva, e troppa “ingegneria finanziaria”, e si sarebbe creata una bolla destinata a sgonfiarsi, con conseguenti tempi duri in arrivo per gli investitori.
L’aspetto importante del ragionamento degli esperti “pessimisti” è che indubbiamente chi ha fatto un mutuo oltre le proprie possibilità, e adesso non può pagare le rate, ha delle colpe, ma ci sono delle responsabilità ben più gravi. E in genere si parla di tre soggetti:

- gli organi di regolamentazione, che hanno lasciato che molte banche americane trasferissero miliardi di dollari di crediti a rischio a risparmiatori stranieri, attraverso metodi poco trasparenti;
- gestori di hedge fund e fondi pensione, che hanno abusato di meccanismi di leva che non sempre comprendevano pienamente
- ingegneri finanziari che hanno sviluppato modelli di “sicurezza statistica” del credito, calcolata però con metodi matematici dalle basi tutt'altro che solide.
Tanto da far dire a qualcuno che in realtà vi sarebbe stata una spinta verso la diffusione di prestiti, anche a rischio, perché molti erano interessati a comprare il debito.

Il problema - secondo i pessimisti - sarebbe che i mutui subprime, se non sono stati il motore, per molte banche sono stati il carburante di una sorta di fabbrica della liquidità. Questo perché è completamente cambiato il modo di lavorare delle banche.
Dieci anni fa, le banche gestivano e finanziavano i prestiti che concedevano. Oggi non è in realtà più così. Le banche non finanziano più il credito, ma lo originano. Concedono i prestiti, li "ospitano" in bilancio per breve tempo e poi li distribuiscono agli investitori tramite strumenti come i CDO (Collateralized Debt Obligations) e simili.
A questo atteggiamento delle banche, si aggiunge quello dei compratori: i CDO venivano acquistati da compagnie di assicurazione, hedge fund e fondi pensione di tutto il mondo, finanziandone l'acquisto con prestiti a basso interesse in Giappone (il cosidetto fenomeno del carry trade) ma anche negli Stati Uniti.
In pratica, soldi prestati acquistano altri soldi prestati, e grazie ad adeguati modelli matematici, diventano garanzia per fare altri prestiti.
Dove condurrà tutto questo? Ci attende, come qualcuno ipotizza, un'onda anomala cioè un crollo di dimensioni epiche? Ai posteri l'ardua sentenza!

LA BOLLA DEL 2000-2001.

NEW YORK È UN GIORNO COME TANTI ALTRI. Il miliardario Rockefeller si siede su una poltrona e si fa lucidare le scarpe. Il giovane lustrascarpe è euforico. «Lo sa signore – dice cominciando a spazzolare - sono appena stato in banca. Ho comprato mille azioni. Un mio parente mi ha assicurato che nel giro di alcuni giorni raddoppieranno il loro valore. Non è fantastico? Perché non ci prova anche lei?». Rockefeller mette mezzo dollaro nella mano del ragazzo, che non ha ancora finito il lavoro, e scappa in borsa a vendere tutti i suoi titoli.

Dopo poche settimane Wall Street crolla. Inizia la crisi del 1929, seguita dalla Grande Depressione. È un vecchio aneddoto di cui esistono molte versioni. Ma il messaggio è chiaro: quando anche l’uomo della strada parla di investimenti in borsa, molto probabilmente i mercati sono già sull’orlo di un collasso. Ed è ora di vendere. È successo anche nel 2000. Amici, parenti, carrozzieri e parrucchiere. Tutti a comprare azioni. La fase espansiva sembrava non finire mai. Poi il crollo inatteso e tre anni consecutivi di rendimenti sottozero. I guadagni di molti piccoli investitori si sono dissolti come una bolla di sapone alla prima bava di vento.
Tutti erano convinti che l'informatica ed internet erano il futuro. Un'opinione più che condivisibile, se non che ha portato a iper-valutare le aziende semplicemente perché avevano un sito internet o lavoravano con internet.


Stavano nascendo anche una serie di indicatori che calcolavano il "giusto" prezzo delle azioni in base al numero di visitatori che aveva il sito dell'azienda. Il problema però è che magari alcune aziende avevano siti con migliaia e migliaia di visitatori al giorno, ma non guadagnavano nulla. Soprattutto, non avevano la più pallida idea di come guadagnare, mancando totalmente un "modello di business" (a quel tempo era anche molto poco diffusa la pubblicità su Internet, che oggi permette almeno stime da questo punto di vista). Ovviamente, una situazione del genere non era sostenibile, e alla fine, quando si è diffusa la convinzione che la maggior parte delle aziende non avevano un business sostenibile, i titoli sono crollati. Il NASDAQ ha perso quasi l'80% da marzo 2000 a ottobre 2002.

Molto interessante il modo in cui Buffett descrive la situazione che si era creata: era come un party infernale, del quale gli investitori odiavano perdere anche solo un singolo minuto. Inoltre, tutti questi frivoli partecipanti avevano pianificato di andarsene giusto un minuto prima di mezzanotte. Tuttavia c’era un problema: stavano danzando in una stanza dove gli orologi non avevano le lancette.
Era come se esistesse un virus, che aveva pervaso tutti gli investitori, professionali e non, che portava ad allucinazioni nelle quali il valore delle azioni di certi settori diventava decuplicato rispetto al valore del business sottostante.
Sui mercati, per ogni bolla che si crea c’è sempre un ago in attesa. Quando i due elementi si incontrano, le nuove ondate di investitori imparano alcune vecchie lezioni, delle quali la principale è che la speculazione è tanto più pericolosa quanto più sembra facile.


LA CRISI DELLE TIGRI ASIATICHE 1997-1998.



Negli ultimi tre decenni molti paesi dell’Asia orientale hanno realizzato uno sviluppo economico assai rapido e sostenuto, con tassi di crescita del proprio PIL quasi doppi rispetto a quelli dei paesi industrializzati e tre volte maggiori rispetto a quelli dell’America Latina.

Questa crescita si è concentrata in particolare in alcuni paesi del Sud-Est asiatico (Corea del Sud, Taiwan, Hong Kong e Singapore, ed in seguito Indonesia, Malaysia, Thailandia e Filippine), il cui sviluppo è stato caratterizzato da un’elevata crescita della produzione nazionale, da una di distribuzione del reddito relativamente ampia, da un aumento del livello di benessere generale, ed infine da una relativa stabilità macroeconomica, che ha riguardato fino al 1996 sia i tassi di cambio delle valute asiatiche, sia deficit pubblico relativamente contenuti.

Le sorprendenti performance di questi paesi hanno ispirato una vasta letteratura, che non ha esitato a parlato di “miracolo asiatico” e attribuendo a questi paesi la denominazione di “tigri asiatiche”. Vari studiosi ne hanno tratto un modello da seguire, generando quella che Dahrendorf ha chiamato una “nouvelle vague”, presente sia nei paesi occidentali che nei paesi in via di sviluppo, attratta da un modello che concilia la crescita economica con la stabilità sociale e l’autoritarismo politico. Ne è nato dunque un mito che, insieme ai consensi, ha suscitato anche paure e preoccupazioni, soprattutto da parte di chi temeva la perdita della supremazia economica dei paesi occidentali e lo spostamento del centro di gravità dell’economia mondiale verso il Pacifico.

Sulle cause del “miracolo” asiatico tuttavia non c’è un consenso unanime. Alla metà degli anni ‘90, è nato un dibattito, non ancora sopito, tra chi, come Krugman, sosteneva che lo sviluppo asiatico era dovuto principalmente ad un uso intensivo degli input, piuttosto che ad un aumento della produttività, e che fosse dunque destinato a far registrare tassi di crescita sempre più ridotti nel tempo, e chi invece sottolineava il ruolo della produttività e legava il declino dei tassi di crescita a cause cicliche o congiunturali.

All’inizio dell’estate del 1997 la Thailandia è stata investita da una forte crisi della propria valuta sul mercato dei cambi che si è propagata con rapidità alle altre economie della regione del Sud-Est asiatico. La crisi che ne è derivata ha dato luogo ad uno degli eventi economici più drammatici degli anni 90. Essa ha posto fine ad una lunga stagione di crescita della regione e ha generato effetti negativi significativi sull’intera economia mondiale.

Sulle cause di questa crisi non c’è ancora un consenso consolidato tra gli studiosi che l’hanno analizzata. Alcuni hanno sottolineato l’incidenza della bolla finanziaria, caratterizzata dall’eccesso di fiducia e di investimenti, avvenuto in un contesto di rendimenti decrescenti, o hanno posto l’accento sull’insufficiente regolamentazione e trasparenza dei settori bancari delle “tigri”. Altri invece hanno dato rilievo al surriscaldamento delle economie asiatiche, che ha generato squilibri macroeconomici, in un contesto di eccessiva rigidità e regolamentazione. Secondo altri ancora alla base delle turbolenze vi erano dei fondamentali poco solidi (tra cui l’eccessivo apprezzamento delle valute, l’elevato deficit di parte corrente, un ingente debito estero a breve termine e la debolezza dei sistemi finanziari interni).

Questa crisi si colloca in un periodo particolare, gli anni ’90, che ha visto un susseguirsi incalzante di crisi valutarie e finanziarie, che hanno coinvolto alcuni paesi europei (1992-1993), il Messico (1994-95), e, più di recente, Russia e Brasile (1998-99). Nonostante alcune analogie con queste crisi, quella asiatica si distingue, oltre che per le cause che la hanno generata, per la sua estensione e per gli effetti di contagio. Questi sono stati tali da richiedere una delle più grandi mobilitazioni di risorse finanziarie della storia, quantificabile complessivamente in una cifra pari a 57 miliardi di dollari.

CROLLO DI BORSA 1987.

Il 19 Ottobre 1987, un’ondata di vendite fece precipitare l’indice Dow Jones Industrial Average da 2246 a 1738 punti, in calo del 22,6% e l’indice Standard and Poor’s 500 da 282.70 a 225.06, in calo di oltre 20 punti percentuali.


Andamento dell’indice Dow Jones Industrial Average (DJIA) Figura 1.



Andamento dell’indice S&P 500 Figura 2.





Questa fu la peggiore flessione che un indice azionario americano avesse mai avuto dal 1885 in una sola giornata di contrattazioni. Furono scambiate circa 604.3 milioni di azioni, quasi il doppio rispetto al precedente record di 338.5 milioni raggiunto il venerdì precedente. Risultati ancor più deludenti si ebbero sul principale mercato statunitense dei future, il Chicago Mercantile Exchange, dove il prezzo del future sull’indice S&P precipitò del 29%: la più ampia perdita giornaliera dall’inizio del trading sugli equity future.


Il crollo di Wall Street fu contagioso e anche le piazze finanziarie europee e asiatiche furono coinvolte nella crisi. Immediatamente si risvegliò il ricordo del ’29 e della Grande Depressione degli anni ’30. Questi timori, fortunatamente, si rivelarono infondati grazie all’interevento congiunto delle Banche Centrali che impedirono che il crollo del 1987 provocasse un’ondata di fallimenti tali da mandare in crisi il sistema finanziario internazionale.Tutti i più importanti mercati azionari mondiali crollarono nell’Ottobre del 1987. Su 23 piazze finanziarie, 19 implosero bruciando più del 20 per cento di capitalizzazione.


Il mercato statunitense non fu il primo a crollare rapidamente. Dapprima i mercati asiatici, ad esclusione del Giappone, subirono un brutto colpo il 19 Ottobre. La crisi fece eco nella maggior parte dei mercati europei, quindi negli USA ed, infine in Giappone. Molti di questi mercati, tra l’altro, avevano subito dei ribassi anche la settimana precedente. Con la sola eccezione del Canada, i mercati continuarono a diminuire fino alla fine di ottobre, e in alcuni casi i ribassi non furono inferiori a quelli del 19 ottobre.Per il trader era scontato che il mercato potesse solo salire. Questo dimostra il livello di euforia raggiunto dal mercato in quel periodo. But it wasn’t different.


Molti investitori cominciarono a temere un aumento almeno temporaneo della volatilità del mercato. Di conseguenza il nervosismo spinse soprattutto i piccoli investitori a chiedere il rimborso delle quote possedute nei fondi comuni di investimento. I fondi di investimento che offrivano servizi telefonici di negoziazione, furono sommersi dalle telefonate al punto tale che era impossibile trovara la linea libera persino alle 11 di sabato sera.


Non appena il 19 ottobre le piazze finanziarie aprirono le contrattazioni, ento pochi minuti la risposta al “What’s Next?” fu subito subito drammatica. Infatti, Il crollo del mercato azionario internazionale il lunedì 19 Ottobre del 1987 sorse con il sole ad est: Hong Kong, Malaysia e Singapore, seguiti da alcuni mercati europei erano calati pesantemente mentre New York ancora dormiva. In molti casi l’inizio delle contrattazioni venne rinviato anche di due ore.Quando, il lunedì mattina, il mercato azionario di New York aprì alle 9:30 non ci furono offerte per molte delle azioni più importanti. Mezz’ora dopo si contrattava su appena venticinque dei 500 titoli dell’indice Standard & Poor’s 500.


Nel mercato azionario di New York il sistema di contrattazione automatica si ruppe e i broker non erano in grado di confermare gli scambi. Quando i mercati chiusero, gli indici ebbero l’ultima parola: il Dow Jones 30 era calato del 22,6%, l’indice S&P 500 del 20,5% mentre il future sullo S&P 500 scese di quasi il 29%.



Molti reports non identificarono le ragioni della crisi, focalizzandosi piuttosto sui fattori che ne caratterizzarono l’andamento. Con il senno di poi, molti analisti furono concordi nell’affermare che i prezzi delle azioni fossero troppo alti nel settembre del 1987.


La crisi dell’87 pose fine ad un mercato rialzista che ormai durava da 5 anni e che aveva visto il DJIA passare da 776.92 punti dall’agosto del 1982 a 2742 punti nell’agosto del 1987, in crescita di oltre 250 punti percentuali.

LA GRANDE DEPRESSIONE.


Il dibattito sul Proibizionismo divenne secondario rispetto allo shock che scosse le stesse fondamenta economiche americane: il crollo della borsa nel 1929. Gli Stati Uniti avevano registrato un vero e proprio boom dopo la Prima Guerra Mondiale, un periodo in cui crebbero produzione e consumi e si fece strada la tendenza ad avventure speculative con l'acquisto di grandi quantità di azioni. Venerdì(il venerdì nero) 29 ottobre 1929 al New York Stock Exchange, in Wall Street, la borsa più grande del mondo, appena aperta la seduta vide l'immediato crollo dell'indice Dow-Jones valore medio rappresentativo dell'andamento dei 65 principali titoli scambiati duranti le sedute nella borsa americana.


Essa fu infatti definita , crisi finanziaria, i titoli azionari persero in tre anni circa tre quarti del loro valore originale; andando così a chiudere il flusso dei finanziamenti alle imprese arrestando la grande macchina dell'economia. Da economica divenne poi sociale, basti pensare che in quegli anni circa 13 milioni di persone persero il lavoro a causa degli improvvisi fallimenti che colpivano mortalmente le imprese. Purtroppo non furono solo le industrie ad essere colpite ma, in particolar modo al sud, anche l'agricoltura ne risenti tantissimo, circa i 3/4 dei già poveri contadini fu ridotta alla fame.


Alcuni economisti definiscono l'accaduto come crisi di sovrapproduzione delle industrie americane, cioè, a causa di un eccesso di prodotti rispetto alla reale capacità di assorbimento del mercato; in realtà la crisi fu amplificata dai fallimenti a catena delle banche di provincia che si andarono a ripercuotere direttamente sull'intera società americana. Nei primi tre anni, i più "caldi" della crisi, le banche si ritrovarono improvvisamente senza denaro liquido quando migliaia di azionisti spaventati dal crack di Wall Streat corsero a vendere i loro titoli. Altre banche decisero invece di restringere i crediti, andando ad inceppare così tutto il sistema economico. Nello stesso tempo il blocco dei prestiti esteri americani, sui quali si era basato l'intero sistema della ricostruzione dopo la I Guerra Mondiale trasmise la crisi nel resto del mondo. "La crisi americana" infatti si riflesse poi su tutta l'Europa e parte del continente asiatico. "La crisi" fece crollare tutti i mercati che si stavano risollevando dopo la Prima Guerra Mondiale, mentre le imprese si stavano riconvertendo da industrie per la guerra a industrie per la pace e mise le basi per quella che sarebbe stata la II Guerra Mondiale basti pensare che essa in Germania aprì le porte al nazismo.


Nella primavera del 1932, gruppi di veterani della Prima Guerra Mondiale marciarono su Washington per chiedere un sussidio di guerra, il Congresso decise di concederlo, ma il Senato ne blocco il pagamento. Molti dei veterani decisero quindi di protestare nella capitale, ma furono dispersi dall'esercito con l'utilizzo della violenza, due di essi morirono negli scontri. Pochi mesi dopo vi furono le elezioni, l'opinione pubblica influenzata dagli avvenimenti di Washington permise, con il 57,4 percento dei voti, l'elezione del rappresentante democratico Franklin Delano Roosevelt alla Casa Bianca per intravedere una soluzione. Roosevelt lanciò un progetto conosciuto universalmente come New Deal(nuovo corso), una politica che puntava all'uscita dalla depressione iniziata nel 1929 e a una maggiore stabilità dell'economia nazionale garantita da un più stretto rapporto tra Stato e Mercato.